La città di Venosa presenta nel suo territorio un complesso catacombale di origine ebraica, che costituisce una testimonianza di notevole interesse storico e archeologico del culto dei morti nell’antichità, oltre che un patrimonio unico di attestazione funeraria ebraica nell’Italia meridionale. Costituito da una serie di ipogei scavati nella collina della Maddalena, poco fuori dal centro abitato, fu scoperto nel 1853, ma divenne oggetto di studio sistematico solo a partire dal 1974.
Al contrario di quelle cristiane, le catacombe ebraiche non erano dei rifugi dove esercitare il culto clandestino, ma dei veri e propri cimiteri sotterranei, costituiti da una rete di corridoi di varia larghezza e dal tracciato irregolare. Le pareti e i pavimenti delle gallerie erano occupati da loculi chiusi da lastre di marmo o da tegole di terracotta. Vi erano, inoltre, delle nicchie (cubicula), che contenevano più sepolcri, caratterizzate in alcuni casi da un arco (arcosolium) scavato nel tufo, intonacato e affrescato con simboli religiosi.
Il sito venosino testimonia, attraverso le epigrafi che vi sono state rinvenute, la presenza tra il IV e il IX secolo d.C. di una consistente comunità ebraica, secondo alcuni più potente di quella presente a Roma. Dalle iscrizioni per ora decifrate e pubblicate si apprende che gli ebrei presenti a Venosa erano sicuramente bene integrati. Tra di essi vi erano proprietari terrieri, commercianti, artigiani e medici, e avevano propri sacerdoti e propri templi. Alcuni, inoltre, erano personaggi ricchi ed influenti e ricoprivano cariche importanti nell’ambito dell’amministrazione cittadina, nonostante fin dal 438 le leggi romane avessero escluso gli Ebrei dagli honores.
Particolare rilievo all’interno delle catacombe ha un arcosolio affrescato con la raffigurazione del candelabro a sette braccia (menorah), affiancata da altri simboli tipici del patrimonio iconografico e religioso ebraico: il corno, la palma, il cedro, l’anfora d’olio. Un altro particolare interessante della tomba, in quanto caso unico all’interno del sito, è il rivestimento in marmo, che fa presupporre la sua appartenenza a una personalità di riguardo.
La natura friabile del terreno ha sempre reso difficile la conservazione del sito, tanto che negli anni scorsi è stato necessario un lungo lavoro di restauro e di consolidamento dell’ingresso e di alcuni percorsi da parte della Soprintendenza ai Beni Archeologici, per rendere accessibile almeno una parte di questo ipogeo con la riapertura alla fruizione del pubblico. Da parte nostra consigliamo una visita, previa prenotazione agli uffici della Soprintendenza a Venosa, per la sensazione che si prova ad addentrarsi nella collina attraverso gli stretti cunicoli, per la cura con cui sono scavati nicchie e arcosoli, per l’atmosfera che fa quasi percepire lo stato d’animo di chi prima scavava e poi utilizzava quelle gallerie per il culto dei propri cari scomparsi, ma anche per la suggestione resa dall’illuminazione soffusa proveniente dal basso, che sembra quasi avere rispetto di uno spazio sacro che con molta fatica è sopravvissuto per secoli attraverso la storia.
Pubblicato su: Rivista20, n. 6 – novembre/dicembre 2014, pag. 67
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