Fede e devozione popolare caratterizzano da sempre i territori della Basilicata, manifestandosi attraverso una serie di riti e simboli radicati da secoli nelle comunità e spesso intrecciati al folklore e alle sue espressioni. Buona parte del patrimonio culturale lucano è costituito dalle feste di matrice religiosa, le quali sono anche il riflesso di una società dalle origini agricole e pastorali. Tra le celebrazioni più sentite dai fedeli ci sono quelle correlate al periodo pasquale e in particolare alla Settimana Santa, che prevedono processioni, rievocazioni e messe in scena, le cui radici si perdono nel tempo. La ritualità pasquale fonde la dottrina cristiana con riti di matrice pagana, legati al momento di passaggio dalla stagione fredda a quella primaverile e perciò rappresentativi del dualismo morte-rinascita, configurando la resurrezione di Cristo come metafora della rivitalizzazione della natura.
Quasi ovunque nei paesi lucani la sera del Giovedì Santo è dedicata alla visita dei “sepolcri” nelle chiese. Dopo la messa “in Coena Domini”, in cui si ricorda l’ultima cena, l’Eucaristia (ovvero le ostie consacrate) viene riposta sul cosiddetto altare della reposizione, in precedenza adornato con vasi o piatti contenenti germogli di cereali e legumi, abbelliti con fiori, merletti e nastrini. Sono i fedeli stessi a preparare e a portare in chiesa come dono questi germogli. Nel primo giorno di Quaresima i semi vengono posti su uno strato di canapa grezza o cotone imbevuto d’acqua e conservati in un luogo buio. Una volta germogliati, non avendo subito il processo di fotosintesi, si presentano come fitti filamenti di colore chiaro. La simbologia del buio richiama la morte, a cui segue la resurrezione, ma il rito vuole essere anche propiziatorio per un raccolto abbondante. Nel linguaggio popolare sia gli altari della reposizione sia, per associazione, i germogli vengono chiamati “sepolcri”. La consuetudine vuole che si visitino cinque (quante sono le piaghe di Cristo) o sette (quanti sono i dolori della Madonna) di questi allestimenti in varie chiese vicine, compiendo in questo modo il giro “delle sette chiese”.
Nei paesi del Vulture-Melfese, durante la Settimana Santa, sono messe in scena sacre rappresentazioni che rievocano i momenti della Passione di Cristo, in parte fedeli alla descrizione evangelica in parte basate su credenze popolari stratificatesi nella tradizione. La più celebre è la Via Crucis che si svolge durante il Venerdì Santo a Barile, centro di origini e tradizioni albanesi. Il corteo si snoda attraverso le strette vie del centro storico per circa quattro chilometri, aperto da tre centurioni a cavallo che suonano una tromba e da tre bambine vestite di bianco, le tre Marie. Seguono trentatré fanciulle con una veste viola, a ricordare gli anni di Gesù. I figuranti sono oltre cento, suddivisi in vari gruppi, tra cui i sacerdoti, le pie donne, i farisei, gli apostoli. La figura di Cristo è rappresentata nel corteo in tre modi: con la croce, con la canna e con la colonna. Il Cristo con la croce, l’unico con il volto riconoscibile, cammina scalzo per l’intero percorso, con una pesante croce di legno in spalla e una catena di ferro al piede. I personaggi più originali, provenienti da reminiscenze albanesi, sono la Zingara e il Moro. La Zingara rappresenta la donna che fornì i chiodi per la crocifissione di Cristo. Per l’intera processione sfodera un sorriso beffardo e ostenta la sua procacità, incurante delle sofferenze di molti personaggi che si ispirano alle sacre scritture. Il petto e le mani della Zingara sono completamente ricoperti d’oro, prestato per l’occasione dagli abitanti del paese. Un altro personaggio pagano è il Moro, dalle origini incerte, che probabilmente simboleggia i Turchi Ottomani, che nel XV misero in fuga il popolo albanese. Il dramma del Calvario va in scena anche a Rapolla (il Mercoledì Santo), ad Atella (il Giovedì Santo), a Venosa e Maschito (il Venerdì Santo) e a Rionero in Vulture (il Sabato Santo). A Venosa la rappresentazione si basa sui dialoghi del film “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli ed è ambientata tra i monumenti più belli della città del poeta Orazio.
Di remota tradizione la processione del Cristo morto che si svolge a San Mauro Forte. Il tardo pomeriggio del Venerdì Santo, dopo una lunga veglia, detta agonia, durante la quale sono cantate le parole pronunciate da Cristo in croce, dal monastero francescano muove un corteo con in testa le icone lignee dell’Addolorata, del Cristo morto e del Calvario. A portarle in spalla ci sono solo ragazze, che indossano tuniche bianche e scialli neri o vestiti di velluto raso nero. Il percorso è caratterizzato da un antico lamento funebre scandito dal suono delle troccole, rudimentali strumenti musicali popolari, e percorre le strade principali del paese, sostando in tutte le chiese.
A Sant’Arcangelo la processione del Venerdì Santo vede la statua del Cristo morto uscire dalla Chiesa Madre, trasportata a spalla dagli uomini, mentre dalla Chiesa di Sant’Anna parte la statua della Madonna Addolorata, trasportata dalle donne. L’incontro delle due statue avviene sulla piazza principale del paese, con il sacerdote che descrive il dramma umano della Madre e del Figlio. Durante la processione viene intonato un caratteristico canto dialettale, che rievoca i momenti della Passione di Cristo. Anche a Garaguso sfilano due cortei separati, il cui incontro è sugellato da canti e lamenti dei fedeli, che creano un’atmosfera suggestiva e struggente.
A Montescaglioso si tiene la processione dei Misteri, che dura dall’imbrunire a notte fonda. La statua della Madonna Addolorata viene prelevata dalla chiesa di San Rocco dal corteo, del quale fanno parte le quattro confraternite del paese: Confraternita della Morte e Purgatorio, Confraternita della Addolorata, Confraternita del SS. Sacramento e Confraternita di Maria SS. del Carmine. È l’Addolorata ad entrare nelle chiese dalle quali vengono prelevate le altre statue dei Misteri, raffiguranti Cristo legato alla colonna, soccorso dalla Veronica, incoronato re, crocifisso, disteso morto e tra le braccia di Maria. La processione attraversa le vie del paese con un tipico passo “dondolante” e molto ricorda i riti della Passione della Spagna meridionale, dai quali probabilmente deriva per influenza aragonese. L’ingresso delle statue lignee nella Chiesa Madre e nella chiesa di Santa Lucia è accompagnato dalle “cantilene”, canti in cui la Madre piange la perdita del Figlio. Si ipotizza che siano state composte dalle monache del Convento delle Benedettine, che, nella più stretta clausura, avrebbero elaborato nel corso dei secoli un complesso rituale devozionale. Dal Giovedì Santo tutte le campane tacciono e durante la processione del Venerdì Santo risuona solo il sordo rumoreggiare della troccola, a cadenzare il passo del lungo corteo. I membri delle confraternite vestono l’abito tradizionale e coprono il volto con il cappuccio a punta, mentre i portatori della croce e delle lampade, chiamati “mamun”, cingono anche una corona di spine. La processione si conclude con il rientro delle statue nelle rispettive chiese.
A Ferrandina i riti della Settimana Santa hanno il momento cruciale nella processione del Cristo morto. Il corteo parte il venerdì pomeriggio dalla chiesa di San Domenico, da cui escono la bara di cristallo del Cristo e la statua di Maria Maddalena. La processione è preceduta dai caratteristici “cirii”, costruzioni in legno poggiate su portantine a quattro braccia, che vengono sostenute da ragazze vestite con abiti identici. I “cirii” vengono commissionati da alcuni devoti del paese e trasportano immagini sacre adornate con candele, fiori e monili d’argento.
Pubblicato su: Pagine Lucane, anno II – num. 1, febbraio 2018, pagg. 47-49
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